Oggi affrontiamo un argomento particolarmente delicato. Parliamo di quel momento in cui un ex atleta smette con l’attività agonistica e si trova catapultato nella vita extra sportiva. A volte si sente parlare di “ritorno alla vita reale”…definizione che non amo molto perché anche la vita all’interno dell’agonismo è reale, eccome se lo è!
Non sto pensando agli atleti di alto livello che, all’apice della carriera o dopo aver ottenuto un risultato particolarmente importante o a seguito di un brutto infortunio, decidono di ritirarsi. Sto invece pensando a tutta un’altra fetta di atleti. Quegli atleti che si trovano ad abbandonare l’agonismo non per scelta propria ma per scelta esterna. Vuoi perché non trovano spazio, vuoi per difficoltà economiche o per pressioni esterne date da famiglia, allenatori ecc., questi atleti si scontrano con il fatto di ritrovarsi in un contesto nuovo, a fare cose differenti e, soprattutto, a subire una decisione che implica sacrificare la propria passione.
Decisione. Questa è la parola chiave. Questi atleti non scelgono di far prendere alla propria vita una certa piega, non passano attraverso il travaglio di notti insonni in cui valutano i pro e i contro “di proseguire un altro anno”. Semplicemente si ritrovano fuori. Perché questo passaggio è così delicato e mette in campo emozioni forti come frustrazione, tristezza, rabbia e totale incapacità di provare piacere in qualcosa?
Ogni atleta che fa sport a livello medio-alto costruisce una propria identità attorno all’essere, appunto, atleta. Un’identità basata su aspettative e obiettivi che la pratica agonistica stessa permette di perseguire e, a volte, di raggiungere. L’atleta si identifica con questo ruolo, lo incarna, si propone a se stesso e agli altri non come colui che fa una certa cosa, scia, pattina, o gioca a basket, ma come “colui che è” sciatore, pattinatore, o cestista. C’è una bella differenza. Fare una cosa, nel nostro caso una disciplina sportiva, è cosa ben diversa da essere colui che pratica quel certo sport. Io posso fare uno sport ma non considerarlo un mio tratto distintivo. Ma quando mi sento di “essere” quello sport, i valori in gioco cambiano. Ecco allora che l’identità personale si struttura attorno all’ambiente sportivo, ai suoi valori, al raggiungimento dei suoi obiettivi.
Ecco allora perché è così difficile affrontare questo passaggio: perché ci si trova ad affrontare un profondo senso di smarrimento. “L’atleta non sa più chi è, perde la propria identità.” Immaginate voi stessi a non sapere più chi siete. Ad essere privati della stoffa di cui siete fatti. A volte il passaggio è molto brusco e si crea un vuoto identitario nel nostro ormai ex atleta che è difficile colmare.
E la difficoltà deriva dal fatto che il nuovo status non è stato scelto e forse non si era nemmeno pronti e attrezzati con un piano B. In altre parole, potremmo dire che si tratta di una sorta di lutto. Qualcosa che prima c’era, e ora improvvisamente non c’è più. Il lavoro di ricostruzione e di adattamento a questa nuova realtà può essere molto lento e faticoso e passa primariamente attraverso l’accettazione di questa condizione di smarrimento. Una volta data dignità a questo senso di vuoto spesso taciuto o negato per vergogna o per non sentirsi fragili, è necessario rinegoziare i propri obiettivi e aspirazioni. Prendere in mano quella rabbia che tormenta l’atleta e trasformarla in azioni concrete per colmare il vuoto lasciato dalla perdita subita. Una cosa credo sia fondamentale. Non crogiolarsi nei se e nei ma, attribuendo responsabilità a destra e sinistra. Anche se ci sono, ed è inevitabile che ci siano, l’atleta che rimane ancora a quello che avrebbe potuto essere, sta decidendo di non andare avanti, rimanendo legato a una condizione che difficilmente riuscirà a elaborare. I se e i ma sono origine e nutrimento della rabbia, e per quanto possano inizialmente essere utili per cercare di dare un senso a quanto accaduto, a lungo andare diventano ostacolo e veleno per qualsiasi forma di ripartenza.
Per Solowattaggio,
Valentina Penati