Di fronte a un errore o a un momento di crisi nel corso di una competizione sportiva, spesso gli atleti si convincono che i giochi sono fatti, si danno per vinti e, in definitiva, scrivono anticipatamente il risultato della propria prestazione. Questo comportamento, a meno che non sia entrato in gioco un infortunio o una problematica fisica, è quasi sempre frutto di un cedimento a livello mentale. L’atleta, infatti, di fronte a un errore finisce col demoralizzarsi e col pensare che l’errore commesso abbia ormai interamente compromesso l’esito della gara. Negli sport di resistenza, il nemico è rappresentato da un momento di calo fisico in cui sembra impossibile percorrere anche solo un altro chilometro. In ognuno di questi casi, sembra non valere la pena continuare.
Ma perché? Perché una gara, la propria gara, non merita di essere portata a termine? Molto semplicemente perché in quel preciso istante si realizza che la gara perfetta che l’atleta sognava di mettere in atto non si realizzerà, almeno in quell’occasione. Rabbia e delusione sono gli attivatori della rinuncia. La storia dello sport è tuttavia piena di esempi di atleti che hanno scelto di tenere duro anche a fronte di una grossa crisi, quando andare avanti sembrava impossibile o rimediare a un grosso errore appariva un’impresa titanica. L’ultimo Giro d’Italia rappresenta un ottimo esempio di questa situazione. Tenere duro e non arrendersi anche quando, apparentemente, tutto sembra perduto passa attraverso una scelta: quella di non mollare ma di continuare a investire risorse ed energie proprio quando la tentazione di arrendersi all’errore o alla debolezza sembra l’unica via possibile.
L’atleta che è in grado di compiere questo tipo di decisione ha sviluppato un assetto mentale che gli consente di avere fiducia nei propri mezzi e nella propria possibilità di risalire. E’ un atleta che si concede la possibilità di pensare a un recupero, che tollera l’imprevisto e l’imprevedibilità che caratterizzano ogni competizione. Non si demoralizza ma concepisce l’errore o la crisi come una sfida nella sfida, qualcosa con cui confrontarsi piuttosto che qualcosa da cui rifuggire. Piuttosto che sul triste epilogo, si focalizza sulla curiosità di scoprire come potrà superare la difficoltà e quale potrà mai essere il risultato finale anche a fronte dell’errore/crisi che l’ha visto coinvolto.
Così facendo l’atleta si tutela da un ulteriore problema: fare i conti con i se e i ma che la rinuncia porterebbero con sé “E se avessi tenuto duro?” “Chissà come sarebbe andata se fossi rimasto in gioco”. Inoltre, rinunciare implica non dare valore a quanto fatto fino al momento precedente all’errore o al cedimento. E’ probabile che quanto guadagnato prima del momento critico sia sufficiente per tamponare la défaillance, ad esempio. In definitiva, non si può mai sapere cosa potrebbe succedere fino a che non si taglia il traguardo. Peraltro, poi, le gare non si fanno da soli e questo ci apre a un altro fattore che ci dovrebbe portare a dire “non è finita finché è finita”. Ma ne parleremo nel prossimo articolo!
@valentinapenati