In un precedente articolo avevo scritto che “abbiamo perso l’ambizione”. Ecco forse mi sono sbagliata. O meglio, la considerazione non era completa. Perché se da un lato è vero che ad oggi è diffusa la tendenza ad accontentarsi, a trovare scuse e alibi e a pretendere il risultato senza mettere in conto che questo richiede una buona dose di fatica, è anche vero che c’è un altro pezzettino che abbiamo perduto: non sappiamo più ammirare e riconoscere il valore degli altri.
E questo, se ci guardiamo un po’ intorno, si riscontra a tutti i livelli: sia che si tratti dell’avversario nella gara di condominio che a livello professionistico così come anche quando siamo seduti davanti alla televisione a guardare una competizione con atleti d’elite. In tutti questi casi, cediamo alla tentazione di distruggere l’altro con mille scuse piuttosto che riconoscerne il merito e, perché no, imparare da lui/lei. Il tutto, ho il sospetto, per non guardare in faccia il proprio limite e, di conseguenza, non doversi impegnare nel processo di crescita e miglioramento che, come detto, implica fatica, dedizione e anche frustrazione.
Meglio quindi distruggere che cercare di migliorarsi. Più facile screditare che mettersi empaticamente “nei panni di”, più facile attribuire a fortuna o ad altri fattori il merito dell’altro, piuttosto che riconoscere il fatto che ha lavorato sodo o che ha saputo affrontare al meglio quella situazione di gara o allenamento. Il punto è che questo tipo di atteggiamento fa male soltanto a chi lo mette in atto. Preclude qualsiasi possibilità di crescita e di evoluzione. E’ come se ci fosse sempre un “sì, ma” che aleggia. E fa male ancora di più se pensiamo che questo atteggiamento si trasmette e si comunica ai giovani, a quelli che, perché no, potrebbero essere i campioni di domani.
Ma allora perché lo facciamo? Perché il giudizio e la critica sull’altro si strutturano come un meccanismo di difesa. Proietto sull’altro ciò che sono le mie insicurezze, le mie debolezze e frustrazioni. Mettendole sull’altro, me ne libero e, seppur temporaneamente, mi sento più leggero. Perché ovviamente a nessuno piace avere delle debolezze o delle insoddisfazioni. Quindi esternalizzandole è come se non mi appartenessero più e diventassero altro da me. Il fatto è che così facendo ci auto-inganniamo e costruiamo una realtà che non è reale e su cui di conseguenza possiamo agire poco. E poiché non potremo intervenire per cambiare gli eventi, rimarremo intrappolati in uno status quo che va a sabotare ogni possibilità di evoluzione.
Ricordiamoci sempre che il giudizio che diamo su di un altro è il giudizio che diamo a noi stessi ma che per meccanismi di autoprotezione non riusciamo a riconoscere né ad accettare. Per interrompere questo loop diventa imprescindibile uscire dalla propria zona di comfort e di certezza, iniziare a guardare all’altro (avversario o compagno di squadra) con maggiore oggettività e porsi un’unica domanda “ma IO cosa sto facendo per andarmi a prendere il successo e la soddisfazione che desidero?”.