Roger Federer, 36 anni. Carolina Kostner, 31 anni. Manuela Moelgg, 34 anni. Cos’hanno in comune questi tre sportivi? Sono tutti over 30 e nel corso delle ultime due settimane hanno saputo ottenere prestazioni di enorme rilievo nelle proprie discipline. Citiamo loro tre perché i loro successi sono storia recente, ma ogni sport e disciplina annovera tra i propri grandi campioni, atleti che a dispetto della carta d’identità stanno raccogliendo importanti risultati, probabilmente come non hanno mai fatto quando erano “giovani”. Questi fatti ci aprono inevitabilmente a una domanda, quando si raggiunge la maturità agonistica?
Posto che non esiste in maniera univoca un’età “giusta” e definibile a priori in cui si raggiunge lo zenith della propria completezza di atleti, è forse necessario riscrivere le leggi anagrafiche dello sport. In molti sono portati a pensare che l’età ideale per fare professionismo sportivo, l’età in cui un atleta esplode ed è al proprio massimo, sia tra i 16 e i 20 anni. Sì vero, c’è la freschezza atletica e fisica, ma non sono certa che mente, motivazione e consapevolezza di sé tengano il medesimo passo. Non a caso, chiedendo a Michael Moelgg (fratello di Manu Moelgg) se la sorella è in questo momento fisicamente in forma, la sua risposta non è né sì né no, quanto piuttosto “è tranquilla, e quando è tranquilla va bene”, ad indicarci che a volte la tranquillità, e con essa la consapevole gestione di se stessi, rappresenta la chiave di volta per l’eccellenza.
Tra i 16 e i 20 anni, e direi fino ai 22/23, la persona-atleta si sta formando. Spesso gli obiettivi e le motivazioni intrinseche non sono completamente definite, spesso sono imposte dall’esterno e la direzione che il giovane atleta desidera dare alla propria carriera è più basata sull’entusiasmo dell’essere catapultato nel fantastico mondo dell’agonismo piuttosto che dalla reale consapevolezza di cosa questo significhi. Con la maturità, e quindi quando la personalità si è formata, l’atleta può avere una consapevolezza maggiore di sé e questo si ripercuote in maniera significativa sull’approccio alla competizione e all’allenamento.
Innanzitutto, con la maturità l’atleta impara a conoscersi e a capire le proprie modalità di funzionamento tipiche, ad esempio in situazioni di stress. Apprende a gestire se stesso e le situazioni competitive, concentrandosi sulle proprie sensazioni corporee ed emozioni e imparando a ottimizzarle in vista della prestazione. Un atleta maturo è maggiormente coinvolto e impegnato nelle scelte inerenti l’allenamento, l’alimentazione e, più in generale, nella cura del proprio strumento di lavoro, ossia quella macchina perfetta ma al contempo delicata che è il corpo.
Un atleta maturo sa cosa vuole, ha definito consapevolmente i propri obiettivi che sono commisurati al livello di abilità raggiunto e tutto ciò che fa (o quasi) è frutto della propria libera scelta, non influenzata da fastidiose dinamiche di giudizio o di soddisfacimento di aspettative altrui.
Un atleta anagraficamente giovane tutto questo semplicemente non lo può fare. Il suo cervello, governato da un’esplosione ormonale e da una plasticità sinaptica che creano instabilità, non è ancora pronto per accedere a un livello di meta-analisi e di auto-riflessione, tipico delle età più adulte.
Un atleta giovane è orientato alla pura azione e “spara” la sua prestazione, in un’ottica tutto o nulla, senza pensare e senza ascoltarsi. E se questo approccio può inizialmente funzionare, a lungo andare diventa una manovra da kamikaze, creando internamente pressioni che se non si sviluppano gli strumenti per gestirle, se non si matura appunto, possono incidere pesantemente sulla durata della carriera e sul piacere dell’essere agonista.
Laddove non c’è pensiero e una consapevolezza chiara di chi sono e cosa posso fare, non ci può essere maturità agonistica e le scienze della mente ci dicono che questa maturità si consegue dopo qualche rinnovo della carta di identità. Non commettiamo quindi l’errore di pensare che la maturità agonistica possa prescindere dalla maturità anagrafica.
Diamoci e diamo il tempo di lasciare che la maturazione faccia il proprio corso, rinunciando ai baby fenomeni e coltivando ogni atleta in un’ottica di lungo periodo. Non rischieremo così di perdere dei talenti in virtù di una bulimia agonistica che vuole il tutto e subito, a scapito della naturale evoluzione del singolo.