Si è appena concluso il gigante di Hinterstoder, il terz’ultimo della stagione in corso. Forse il più difficle, il più estenuante, a causa di una prima manche corsa con ritmi bassissimi e su tornanti pianeggianti che hanno messo a dura prova non solo la potenza ma anche la capacità aerobica degli atleti. Eppure, nonostante le difficoltà, i nomi sul podio sono sempre quelli, con Pinturault che danza sul sale e ormai l’affermato Zubcic che fa valere ancora una volta la sua fame di vittoria e la strapotenza fisica, caratteristiche che gli hanno permesso anche oggi di fare la differenza sul finale. E chi troviamo sul gradino più basso del podio? Ovviamente il solito volto noto di Kristoffersen, capace di trasformare la sua sciata da una manche all’altra passando dall’irruenza della prima alla fluidità della seconda. Odermatt si riconferma ritrovato dopo la rottura del menisco e chiude ai piedi del podio, mentre al quinto posto troviamo finalmente il nostro gigantista “number one” Luca de Aliprandini, in grado di mettere in pista due manche regolari, sempre in spinta e soprattutto senza errori.
Ma come sarebbe andata a finire se nella prima non ci fossero stati tutti quegli angoli? E se avesse pescato il numero 8 invece dell’11? E ancora, se il manto nevoso avesse tenuto botta senza deteriorarsi eccessivamente? Beh d’altronde, si corre a 600 metri d’altezza a marzo, cosa c’era da aspettarsi dalla località austriaca?
Ma fermiamoci per un attimo. Ha proprio senso che ci facciamo queste domande? Ha senso che dobbiamo sempre trovare una scusante se i nostri atleti non centrano il podio dal dicembre del 2016 (Florian Eisath in Alta Badia ndr)? E una volta il vento, una volta il tracciato e la volta successiva la neve. Vista la situazione climatica che stiamo vivendo sembra un po’ assurdo che ci si soffermi a guardare tutte queste piccolezze, dando per scontato che esiste una giuria e una federazione che possano dare l’ok per lo svolgimento di gare di questo tipo, soprattutto in Coppa del Mondo. Non fraintendete, questo articolo non è né un elogio alla federazione internazionale, né una critica nei confronti dei nostri atleti, in pochi sanno cosa vuol dire trovarsi al cancelletto di una gara della massima serie dopo aver chiuso in testa la prima manche, e in ancora meno cosa voglia dire sfruttare a proprio favore quell’occasione e portarsi a casa il risultato più grande. Abbiamo piena fiducia nei nostri alfieri e nei tecnici che stanno cercando di risollevare una squadra che non brilla più dai tempi della coppia Blardone-Simoncelli, e la concorrenza spietata che c’è al momento non gioca di certo a favore delle prestazioni dei cosiddetti “outsider”.
La domanda che però viene spontaneo porci rimane. E’ possibile che giochi sempre tutto a nostro sfavore? Che i centesimi per raggiungere un podio, una top10 o una qualifica siano sempre dalla parte degli altri? Oppure c’è un problema di fondo che non riesce a farci trovare la zampata giusta? E’ pieno di esempi, dallo stesso Zubcic, che ha raggiunto il vertice senza mai essere stato un talento eccezionale fino a questo gennaio, ai vari Daniele Sette, Daniele Sorio e Marcus Monsen che hanno raggiunto almeno una qualifica allenandosi senza l’ausilio di una federazione alle loro spalle. Non è che forse alla base di tutto c’è la fame di emergere? La fame di mettere le punte dei propri sci davanti al resto del mondo.
Tutti sappiamo quanto il Prando nazionale ci stia mettendo per raggiungere quel maledetto podio, risultato che merita ampiamente da parecchie stagioni, ma se siamo appesi solo al suo di risultato, difficilmente torneremo ad essere una squadra dominante, soprattutto mentre gli altri crescono e avanzano nelle classifiche senza mai guardare in faccia niente e nessuno.