La Milano-Sanremo raccontata da Miriam Terruzzi

Per gli stranieri è La Primavera. Un nome odoroso che fa pensare subito ai fiori che sbocciano in Riviera quando in certi paesini sulle montagne c’è ancora la neve. Per gli italiani è semplicemente La Classicissima per eccellenza. La corsa di un giorno più lunga di tutte con il cuore diviso a metà dal Turchino. Da una parte Milano, dall’altra Sanremo. In mezzo quasi trecento chilometri di quella che non sembra mai davvero una primavera. Perché si sa, Marzo è pazzo e se ai tempi di Bartali la neve sul Passo era matematica, ai nostri anche le bufere di grandine non sono poi così inaspettate. Persino a Sanremo che, nell’immaginario, è la culla che accoglie tutti con il sole che lucida le palme e il blu intenso del mare di pomeriggio.

L’incanto della Milano-Sanremo è difficile da dire a parole, un po’ come tutte le cose che negli anni sono diventate speciali. Un filo invisibile e tenace che collega la città al mare e che alla fine parla di noi perché l’amore per il ciclismo è sempre strettamente legato a qualche ricordo, piccolo o grande che sia. Sarà che non sono poi così lontani i tempi in cui i nostri nonni facevano le vacanze in Riviera e percorrevano l’Autostrada dei Fiori con la centoventisei stracolma di valige. Sarà che l’arrivo in Via Roma risorto dalle ceneri, affamato di coriandoli, ha riportato come un soffio tutta la leggenda che la avvolge. Sarà la nebbia, sarà il mare.
Ma questa è una corsa che ci appartiene come il gelato, gli spaghetti, la pizza. Una parte di noi. Una di quelle corse che ci fa svegliare presto, quando Piazza Duomo è ancora deserta e la Madonnina brilla appena nella luce bianca del primo mattino per andare a prendere il giornale sportivo e infilarsi in un bar con la scusa del caffè e giocare ai pronostici con gli amici. Una di quelle corse che fa gracchiare la telecronaca ovunque sul lungomare vegliato dalle palme e dall’aria salmastra. Una di quelle corse che impari ad amare da piccolo o da grande. Basta un istante per innamorarsi. E la Sanremo è un impasto strano al quale ci si affeziona subito forse proprio per quel suo strano carattere di marzo, per il suo volto doppio e imprevedibile, per la dolcezza dei suoi profumi e la durezza di quei chilometri infiniti. Che poi te la giochi così: o scatti o sei abbastanza veloce per restare fino al traguardo. Decidono le gambe prima della testa.

L’incanto della Milano-Sanremo lo leggi in faccia ai corridori che partono e a quelli che arrivano. Il sudore è l’inchiostro del viaggio. E il fango, la polvere, l’acqua, tutto quello che la primavera porta, che sia brezza o aria di bufera. Glielo leggi in faccia, come a Dege, l’ultima volta, su quel palco con i suoi tifosi venuti dalla Germania per lui. Gli occhi lucidi tra i coriandoli portati via dallo stesso vento che aveva scacciato la pioggia. Lacrime invisibili come quel filo che collega i due poli opposti dello stesso battito. Di un lungo, infinito battito che comincia con l’odore umido della nebbia e finisce con il rumore delle onde che biancheggiano contro gli scogli.
E’ questo l’effetto che fa.
La Primavera.
Che per il ciclismo è questa. Strana, capricciosa, senza sconti, dall’anima tenera e ruvida così simile a quella della bicicletta. A volte ti stringe, a volte ti abbraccia. 
Primavera che torna. Si mangia il cuore come la nebbia fa con i Navigli.
Come le onde fanno con la spiaggia in un pomeriggio di marzo.

@miriamterruzzi

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