È arrivata la stagione delle maratone, delle grandi salite in bicicletta e dei trail running, tutta roba per polmoni forti insomma. Ma non è solo questione di fiato. È anche questione di fatica. Di stare dentro la fatica per lungo tempo. Cosa non facile, in cui la componente mentale gioca un ruolo fondamentale. Quando siamo impegnati in uno sforzo fisico intenso e protratto nel tempo perdiamo lucidità mentale, l’acido lattico in circolo può giocare brutti scherzi se non agiamo una forza opposta e contraria. E questo possiamo farlo se abbiamo a disposizioni un’ottima durezza mentale. Nella fatica è molto facile cedere il passo a pensieri negativi del tipo “non ce la farò”, “voglio smettere”, “quanto manca?”. Tutti pensieri che ci proiettano nel futuro, un futuro che, proprio perché stiamo facendo una fatica enorme, vediamo lontanissimo e inarrivabile. Siamo quindi portati a farci prendere da una sorta di panico in cui i pensieri schizzano da una parte all’altra.
Le prestazioni endurance sono limitate da un sistema cerebrale che regola l’azione muscolare in modo che il rapporto velocità/potenza non superi la capacità del corpo di far fronte allo stress dell’esercizio stesso. L’ipotesi si basa sul fatto che se questo sistema di sicurezza non esistesse, un atleta estremamente motivato potrebbe correre o pedalare oltre la propria capacità fisiologica e minacciare la sua stessa incolumità. La decisione se fermarsi o meno mentre si sta svolgendo un esercizio di resistenza ad alta intensità si basa principalmente sulla sensazione consapevole di quanto l’esercizio sia duro, pesante e faticoso. Questa sensazione altro non è che la percezione dello sforzo. La percezione dello sforzo è quindi un meccanismo che l’essere umano possiede per proteggersi dall’autodistruzione.
Tuttavia, tende ad entrare in gioco molto prima di quando effettivamente il nostro corpo non ce la fa più. La ricerca ci dimostra che è possibile innalzare la soglia di tolleranza alla fatica, cioè il momento in cui percepiamo che lo sforzo non è più sopportabile. E poiché la percezione è un fatto mentale, è possibile manipolarla con adeguate strategie mentali come il self talk, ad esempio, che utilizza parole positive e autocalmanti, o ancora la suddivisione mentale della distanza da percorrere in sotto obiettivi più maneggiabili, gestibili e pensabili. In generale con tutte quelle tecniche mentali che contengono la fuga del pensiero o l’autosabotaggio e che, se adeguatamente apprese e personalizzate, forniscono il proprio contributo al miglioramento della prestazione per evitare che quel meccanismo nato come forma di autoprotezione si tramuti, per eccesso di autotutela, in un sabotaggio della prestazione.
Siccome si potrebbe pensare a una manovra da kamikaze e a uno sfondamento dei limiti individuali, ribadisco l’importanza dell’allenamento nel riconoscere i propri indicatori interni che ci suggeriscono se realmente siamo al limite o se ancora abbiamo margine, così come la conoscenza delle tecniche mentali che permettono di auto-gestirsi nella criticità.
Ricordiamoci quindi che non si può migliorare come atleti endurance se non si migliora il proprio rapporto con la percezione dello sforzo.