Oggi ci addentriamo in un argomento assai spinoso di cui si è parlato tanto negli ultimi tempi. La stagione dello sci alpino è ormai giunta al suo termine e si cominciano a fare i primi bilanci. Sulla bocca di tutti un’unica affermazione: dietro non c’è nessuno. Lo sappiamo tutti, che ci piaccia o no la nostra cultura è quella del “tutto e subito” e se un atleta commette un errore o ha una stagione un po’ difficile lo diamo già per finito. I giovanissimi non sono esenti da questo approccio.
Proviamo a guardare per un attimo la situazione con gli occhi di chi “è dietro”, con gli occhi di quei giovani che dovrebbero rappresentare il futuro di questo sport. Come si sentono? E come si approcciano a questa situazione?
Beh, credo che non trascorrano tempi troppo felici. Non parlo di quei due/tre che a 16 anni sono già esplosi ma di coloro che devono ancora farlo e sono sulla strada della crescita agonistica.
Probabilmente la loro motivazione si scontra con quella che sembra essere una verità immutabile, ossia che dietro non c’è nessuno, una visione rigida che non lascia spazio né fornisce strumenti per cambiare lo stato delle cose.
Come si può lavorare e crescere in questo clima? Sicuramente i livelli di ansia sono molto elevati e la pressione non è buona alleata né dell’allenamento né tantomeno della prestazione. Ne consegue, evidentemente, che le prestazioni sono deludenti e questo va a confermare quella convinzione generale che dietro non ci sia nessuno e che su quei giovani atleti non val la pena investire perché non hanno le carte in regola per esplodere.
Ma è davvero possibile che nessuno abbia le qualità per farlo? Possibile che in Italia non nasca nessun buon atleta?
O forse “dietro non c’è nessuno” perché non creiamo le condizioni affinché qualcuno da dietro possa emergere.
Percepirsi costantemente a rischio, non permette di gareggiare con tranquillità, di osare e acquisire fiducia nei propri mezzi. Dare fiducia, dare l’idea che si può sognare e puntare a qualcosa di importante, a mio parere, può fare davvero la differenza nel percorso di crescita di un atleta. Non si tratta di illudere, ma di lasciare uno spazio sia temporale che materiale affinché i giovani atleti possano maturare, anche sbagliare e definire la propria strada agonistica.
Prima ancora di guardare al singolo e di valutarne le potenzialità, non sottostimiamo l’importanza del clima che si crea all’interno di un movimento perché può davvero avere un valore affinché quelle potenzialità si traducano in realtà. E dar vita a una realtà di successo credo sia interesse di tutti.
Detto questo, c’è poi ovviamente l’individualità, c’è il singolo atleta con la sua motivazione e il suo impegno. Questi ingredienti li deve mettere l’atleta, senza se e senza ma, con la convinzione e la consapevolezza che bisogna far fatica e tollerare sconfitte e battute d’arresto. Questo è fondamentale per non lasciare spazio ad altre culture, come quella dell’alibi o delle scorciatoie. Ma non possiamo unicamente attribuire la responsabilità di un insuccesso al singolo senza tenere conto dell’ambiente che lo circonda. Sarebbe come dire a un bambino che non è capace di sciare senza averlo mai portato in montagna né avergli mai fatto prendere una lezione con un buon maestro.