Abbiamo perso l’ambizione

Porsi un obiettivo. Impegnarsi per raggiungerlo. Fallire. Riprovarci. Ricadere. Provarci di nuovo. Riuscirci. Ecco il processo che ci porta da un immaginario punto A a un punto B. Il processo di chi ha un obiettivo che può essere dettato da una passione, da un interesse o da una sfida, ma pur sempre un punto da raggiungere. Ma senza l’ambizione non solo non si arriva da nessuna parte, si rischia di non incominciare nemmeno.
E guardandoci intorno viene il sospetto che molti l’ambizione l’hanno persa. Fortunatamente ci sono tante persone che di ambizioni ne hanno eccome e che per quell’ambizione lottano quotidianamente. Ma ce ne sono altrettante che la perdono strada facendo, se mai l’hanno avuta. Un curioso fenomeno che sembra in crescita. Si preferisce vivacchiare, ci si siede di fronte alla prima difficoltà o ci si accontenta. Porsi un traguardo? Avere un interesse? Puntare in alto? Lo si fa sempre meno.
Perché si finisce a fare ciò? Perché si arriva a un punto in cui si scopre che per eccellere bisogna far fatica. E con fatica intendo proprio la fatica a 360°: fisica, mentale, dolore, delusione, cadute e risalite.
In qualsiasi ambito della vita, che sia lo sport, lo studio o l’attività professionale, nella nostra epoca, abbiamo preso una piega che ci porta ad accontentarci di quel che arriva, per caso o per fortuna. E invece no. E’ necessario provarci. Provare a raggiungere il premio più grande: la vittoria. Poi magari non ci si riuscirà. Ovvio, non tutti possono vincere. Ma almeno si avrà la consapevolezza di averci provato. Le cose non piovono addosso e, contrariamente a quanto guru e pubblicità ci suggeriscono, bisogna andare a prendersele.
Un mio collega americano (Jim Afremow) dice: “Non pensare mai a meno che all’oro”. E io penso che sia vero. Troppo spesso a scuola e in palestra ci insegnano a fare del nostro meglio. Ma fare del proprio meglio è la base. Ci mancherebbe. Se nemmeno così fosse, potremmo tranquillamente stare a casa. A volte, però, quel “fare del proprio meglio” rischia di diventare un alibi di fronte agli insuccessi, una medicina preventiva nel caso le cose andassero male. Lo so che questo può suonare impopolare. Se ci pensiamo bene però nell’espressione “fare del proprio meglio” c’è un vuoto di significato. Che cos’è il “mio meglio”? È un concetto indefinito, non quantificabile, e per questo non può dare una direzione. Se non so che voglio arrivare primo, se non mi faccio smuovere dall’ambizione di arrivare in cima non andrò da nessuna parte. E l’ambizione è il punto di partenza, è la voglia di eccellere, che poco ha a che fare con un generico “proprio meglio”. Semmai è quella spinta che ci fa andare avanti anche se non abbiamo voglia, anche se tutto è difficile e qualche volta si cade. A patto che si sappia dove si vuole arrivare, senza riserve e senza alibi, se scegliamo la strada dell’ambizione scegliamo la strada del provarci davvero.
Quindi lottate, gente, lottate. Perché dover fare i conti con una sconfitta non sarà nulla rispetto al vivere col rimpianto e la frustrazione di non averci nemmeno provato.

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